domenica 12 aprile 2009

Diario di un'estate a San José de Chiquitos
di Francesca Casafina (agosto 2008)

Mi affaccio dal finestrino e una vampata calda mi accarezza la faccia. L'aria è satura di sabbia. Una signora corpulenta cammina con abilità lungo i corridoi del treno, portandosi dietro una grossa cesta piena di empanadas e pollo fritto. Presenta la sua succulenta mercanzia con voce stridula, lasciando ogni tanto qualche impronta d'olio sul grembiule verde che le sottolinea i fianchi generosi. Mi fermo a osservare una bellissima ragazza con delle trecce lunghissime e dei splendidi occhi scuri. Sulle spalle tiene legato con un grosso nodo un aguayo, il tradizionale tessuto andino. Ha una bella dentatura bianca, mani piccole e i polsi pieni di braccialetti di rame. Mi dice che ormai manca poco e in effetti dopo meno di venti minuti cominciamo a rallentare. Il treno sembra un grosso gigante stanco, che arranca a fatica tra frenate brusche e accelerate rumorose. Ci lascia in piena notte in una rumorosissima stacion ferroviaria, scaricando il suo ventre sovraffollato di passeggeri. Appena scendiamo veniamo sopraffatti da un odore di fritto che si attacca ai vestiti, intorno e' pieno di chioschetti improvvisati dove è possibile mangiare pollo fritto, empanadas al formaggio, riso, manioca, caffé, refrescos e poi l'immancabile majadito – un piatto tradizionale composto da riso, pollo e manioca fritta -. Fa caldissimo. L'umidità agisce sul corpo come una droga naturale, rallentando la capacità di movimento. I passeggeri ormai a terra sembrano tante formiche sovraccariche ancora intorpidite dall'aria viziata del treno. Sopra di noi un cielo che trabocca di stelle luminosissime. Poco lontano la grossa statua di una ragazza con indosso il tradizionale abito chiquitano che le scende maliziosamente sulle spalle. Sembra quasi volerci dare il benvenuto. Benvenuti a San José de Chiquitos, Bolivia.
Negro, Mosi e don Elio sono venuti a prenderci. Saliamo sulla vecchia toyota col volante trapiantato a destra, dopo essserci abbracciati a lungo. Arrivare a San José é un pò come tornare a casa. A volte penso che sia il posto più ospitale del mondo ma è solo un pensiero fra i tanti che adesso mi scorrono in testa. Mi accendo una sigaretta e comincio a tracciare col dito la strada, sulla sinistra l'aldea de ninos, poi la strada del mercato dove ci sono gli alberghi "non per turisti", la macelleria all'angolo e poi la via di casa. Non ci sono indicazioni, non ci avevo mai fatto caso. Neanche se ne sente la mancanza, a dire la verità. Quando riconosco il campanile della chiesa capisco che siamo arrivati. In casa sono tutti svegli ad aspettarci. Anche Beethoven e Chulin. Sul tavolo c'è del pane e un pò di mate caldo ma siamo troppo stanchi. Ancora qualche abbraccio, il tempo di sistemare il mosquitero e poi a dormire. Fuori il silenzio. Fisso la tenda bianca gonfiata dal vento e sbircio fuori fino a che non mi vince il sonno. Sono a casa.

San José de Chiquitos si trova nel dipartimento di Santa Cruz, nella parte orientale della Bolivia. E' una delle sette missioni gesuitiche della Chiquitania, insieme a San Miguel, San Ignacio de Velasco, San Javier, Concepcion, Santa Ana e San Rafael. Durante l'epoca della dominazione spagnola l'influenza dei missionari gesuiti è stata molto forte in queste zone e le bellissime chiese in stile barocco-chiquitano sono una testimonianza dell'incontro fra la cultura chiquitana e la religione cattolica.
La facciata della chiesa di San José ha una forma regolare. All'interno grosse panche di legno massiccio, pavimento in terracotta, la lunga navata che conduce a un abside sontuoso. E' un luogo che rapisce, anche chi non è credente. C'è come una strana energia che pervade e predispone al raccoglimento. La chiesa non è mai chiusa e non è mai vuota. Il bisogno di pregare qui non ha orario e la fede pervade ogni aspetto della vita collettiva, nutrendosi di credenze popolari oltre che del tipico umorismo chiquitano. Camminando per le strade polverosissime di San José l'impressione che si ricava è quella di quiete, forse anche per via del caldo tropicale. I ritmi sono dilatati e la lentezza non sembra rappresentare un problema. La piazza davanti alla chiesa ruota intorno a un chioschetto in ferro battuto dove si tengono i concerti durante le feste. Agli angoli delle strade qualche banchetto di caramelle e sigarette sfuse. Qui siamo nella Bolivia tropicale, terra di immense pianure fertili, prossima alla frontiera col Brasile. I grossi latifondi di agricoltura industriale si trovano qui, dove l'abbondanza di terra buona e la debolezza dei sindacati agrari favoriscono lo strapotere delle oligarchie terriere. Adesso, con Evo Morales al governo, sembra che le cose stiano cambiando. Rifletto sull'immenso potenziale di queste terre, sulla generosità di una natura particolarmente prodiga che le logiche del profitto riescono a pervertire. Ci fermiamo a prendere un refresco alla pesca e a chiaccherare un po' con Jaime e Rosi. Non sono di queste parti, vengono dalle zone dell'altopiano, nella Bolivia occidentale. E' facile intuirlo non solo dai loro tratti tipicamente andini ma anche dall'abbigliamento di Rosi, tipico dell'altopiano. Qui chiamano colla le persone dell'altopiano, con un misto di diffidenza e razzismo. Le vicende politiche dell'ultimo trentennio hanno ridotto la Bolivia a un paese diviso, in cui i ricchi dipartimenti orientali si oppongono al centralismo delle regioni andine. Forti delle loro economie dominanti – qui si trovano le riserve di petrolio e gas naturale – le zone della cosiddetta “mezzaluna fertile”, capeggiate dal dipartimento di Santa Cruz, dove ci troviamo, si oppongono tenacemente alla politica “indigenista” di Evo Morales, rivendicando un'autonomia politica che consenta una gestione decentralizzata della ricchezza. In altre parole evitare la redistribuzione dei proventi delle esportazioni su scala nazionale. E non è cosa da poco, se si considera che il dipartimento di Santa Cruz contribuisce da solo a circa il 30% del PIL nazionale. La Bolivia è il paese delle contraddizioni, dei conflitti permanenti, con una polarizzazione sociale fortissima, una ricchezza culturale enorme e una rara abbondanza di risorse naturali. Un paese con alle spalle tanta storia di lotte sindacali e contadine, spesso umiliato da politiche economiche ingiuste ma mai vinto. La politica, quella vera, qui si fa nelle piazze, nelle strade, marciando in migliaia per chilometri fino ai palazzi del potere. Morales è riuscito a vincere le elezioni grazie al sostegno dei movimenti sociali e alla lotta popolare contro le privatizzazioni dei beni comuni. Come dire, i politici a lezione dal popolo e non viceversa.
Ritorno dalle mie riflessioni, saluto Jaime e Rosi e mi avvio con gli altri verso casa. Sono quasi le 12, dona Ausencia avrà già preparato il pranzo.

Sveglia alle 5 e mezza. Il solito canto del gallo, stamattina particolarmente audace. Oggi cominciamo il lavoro alla fattoria sociale o scuola d'azione, come ci piace chiamarla. Sono circa quindici ettari di terreno, dove adesso crescono pomodori, fagioli, alberi di limoni e canna da zucchero. Due anni fa abbiamo lavorato per ripulire il campo, costruire il pozzo e la pompa per l'acqua. E' stato un lavoro enorme, soprattutto per chi il pozzo l'ha costruito veramente. Noi volontari ci abbiamo messo tanta volontà, un bel pò di inesperienza e poca resistenza alla fatica fisica. Ma abbiamo imparato tanto, soprattutto cosa significa essere parte di un progetto e lavorare insieme per realizzarlo. Fidel è già al lavoro. Ogni tanto ride di noi. In effetti è uno spettacolo divertente vedere Marco recintare l'orto col filo spinato, Martina e Lucilla maneggiare l'ascia o Germano rassodare il terreno. Siamo una squadra di idealisti impenitenti e imbranati. E il sole non perdona. Per fortuna c'è la foglia di coca a tirarci un pò su. Fidel è di Vallegrande, una delle province del dipartimento di Santa Cruz. A Vallegrande furono catturati "Che" Guevara e i suoi, mentre cercavano di preparare la rivolta popolare nell'inospitale selva boliviana. E' un tipo scherzoso, Fidel, a tratti irriverente ma assolutamente genuino. Anche se esile di corporatura ha una resistenza fisica impressionante. Con i ragazzi parla di donne e cerveza, a noi riserva argomenti meno "da uomini". Quella contro il machismo è una battaglia contro i mulini a vento da queste parti, soprattutto nelle zone rurali. Anche se hai una vanga in mano, una salopette da lavoro, un bolo di coca in bocca e un mozzicone di sigaretta in mano rimani sempre una mujer, magari un pò sui generis ma sempre mujer. Rido di questo, anche se mi fa un pò rabbia, mentre cerco disperatamente di far camminare dritta la carriola piena di sterpaglie, con Fidel che mi guarda divertito. Ho le tasche piene di limoni e le mani sporche di terre. Lo spirito alle stelle, anzi alle nuvole.
Quando sentiamo il rumore del motore, capiamo che è ora di tornare a casa. Carmen, Anamaria e Fabiola sono venute a prenderci. Carmen è la responsabile dei progetti qui a San José. E' una persona formidabile, testarda all'inverosimile e fiera. Ha studiato economia agraria all'università di Santa Cruz. Saliamo sulla macchina, tre sul sedile posteriore e due nel portabagagli. Sbucciamo qualche arancia, Marco arrotola una sigaretta e Germano scatta qualche foto. Propongo di cantare una canzone, De André, Guccini, Modena City Ramblers, qualche stornello romano. L'idea piace a tutti.

Una delle cose che più mi piace fare a San José è comprare il pane. Molte donne lo fanno in casa e poi lo vendono ancora caldo. La sera ceniamo con una tazza di caffé caldo o mate di coca, un pò di pane, la marmellata di dona Eraida e magari qualche focaccina al mais impastata dalle mani preziose di dona Ausencia. E' una vecchietta silenziosa e riservata, gelosa del suo regno incantato che è la cucina, dove sforna, taglia, impasta, mescola e frigge come una maga gelosa delle sue formule magiche. Non sa scrivere né leggere. Non l'ho mai abbracciata perchè mi sembrerebbe di violare il suo codice discreto ma le voglio un gran bene. Il giorno in cui abbiamo condiviso la ricetta della torta alle mele ho capito di aver conquistato la sua fiducia e ne vado orgogliosa. E' il nostro segreto.
Oggi andiamo nelle comunità rurali, poco lontane da San José. Henry passa a prenderci col solito furgoncino rosso carico di buste di insalata, corde e casse di pomodori. Lavora per il Plan de desarrollo indigena. E' una persona dolce e disponibile, conosciuto e ben voluto da tutti. Nelle comunità ci accolgono con la consueta ospitalità, visitiamo la scuola, l'ambulatorio, i laboratori di artigianato e gli orti comunitari. Junior e Julio Conrado stanno portando avanti un laboratorio itinerante di pittura creativa. Quest' anno è arrivata anche l'illuminazione elettrica qui nelle comunità. Ci fermiamo a Ramada per dare una mano nella raccolta dei pomodori. Tra risate generali e qualche raccomandazione riesco anche a montare senza sella un malandato ronzino non troppo contento di avermi sul groppone. Dopo il bagno al fiume e il pranzo a casa di dona Maria ci riuniamo con le donne per discutere dei progetti, fra battute, risate complici e caffé in abbondanza. Il problema adesso è la pompa dell'acqua e l'amministrazione dei fondi da parte del Plan, che sta creando non pochi dissapori tra le comunità. Ma si continua a lavorare. Si fa buio ed è ora di tornare a San José.
Quando va via il sole si apre un fiore bianco che qui chiamano maliziosamente duena de la noche. Ha un profumo buonissimo, dice Martina, fra le inevitabili risate generali.

San José è un pueblo piccolo. Le strade sono sterrate e l'unico punto di ritrovo è la piazza principale davanti alla chiesa. C'è la scuola di musica, che tiene viva l'antica tradizione della costruzione di strumenti musicali. Il legname qui è abbondante, nel bosque seco chiquitano. E poi c'è Radio Nativa di don Konrado, la voce di San José e una delle persone più belle che io abbia mai conosciuto. Ha origini tedesche ed è uno dei cittadini più conosciuti qui a San Josè insieme a don Elio, memoria storica della Chiquitania. Turisti ce ne sono pochi, qualche volontario che collabora con le suore dell'orfanotrofio e ogni tanto qualche viaggiatore alla ricerca di itinerari non da guida turistica. L'ospitalità qui ha radici antiche e il piacere di stare insieme è la vera risorsa. Forse a Roma la chiamerebbero indolenza ma è perchè non sono mai stati a San José. Al di là della retorica sul "chi ha meno vive meglio" o sulla "riscoperta delle cose semplici" mi verrebbe da dire che qui a San José è ancora possibile svegliarsi la mattina di buon umore, sudare di fatica ma farlo tutti insieme, godersi la siesta dopo pranzo e "perdere tempo" fregandosene del tempo. Non ho mai riportato cartoline da San José ma solo la cara de abuelo che mi ha regalato Marlene, le borse dipinte a mano e un pò di terra rossa di Irpias. E poi volti e risate. Tante risate.

1 commento:

  1. che bellissime descrizioni, che voglia di america latina fai venire..
    brava brava!

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