domenica 18 ottobre 2015

 
In memoria di un "falso positivo"
di Fabrizio Purita (18 ottobre 2015)

Meglio morire in piedi, che vivere una vita in ginocchio. Qualcuno lo disse e altri lo hanno continuato a dire. Ma al di fuori di chi l’abbia mai detta questa frase; al di fuori di chi l’abbia realmente capita, e chi no; al di fuori dell’aspetto rivoluzionario o politico; forse anche al di fuori della stessa azione; ad oggi, il suo significato originario lo ritroviamo in distinti luoghi della nostra Terra. Luoghi che, seppur contaminati dall’aspetto più consumistico della nostra cultura – seppur offuscati dalla nostra lucentezza – mantengono intatto il loro colore, un colore dalle molte sfumature, che possiede le tonalità della terra. Luoghi di terre ricche e di popolazioni organizzate collettivamente; terre secolarmente contese e gente costretta alla solitudine di un conflitto eterno. Esistono luoghi e terre lontane, dove l’immensità della selva ospita biodiversità incalcolabili; dove culture lontane non hanno ancora metabolizzato – e né accettato – il cambio culturale imposto; dove i fiumi scorrono, a volte limpidi e incontaminati, a volte opachi e macchiati di sangue; dove a uno sguardo tenero si contrappongono due occhi assenti, dove un sorriso timido si incupisce davanti a una risata forzata. Luoghi immersi nelle profondità di una notte senza lampadina, di una candela che si scioglie e si spegne sullo spigolo di un vecchio tavolo di legno; notte secca di lucciole o umida di piogge torrenziali; concerto di rospi e animali selvatici, o avvolta da tuoni imponenti e lampi mortali. Esistono frasi, come la nostra, che nascono da condizioni di estrema necessità. Frasi che ci ricordano una condizione e una scelta, che evidenziano opposti i quali rimandano a concetti della nostra umanità. Nord o sud, ricchi o poveri, oppressori od oppressi, padroni o schiavi, individualismo o collettivismo. Opposti, così facili da individuare nelle pagine della storia di qualsiasi paese, ma così difficili da accettare nella vita che ama fuggire le evidenze del nostro presente. Ma un concetto profondo ha bisogno di una spiegazione più semplice, più facilmente comprensibile, più spudoratamente diretta, più figuratamente accessibile, specialmente quando il gioco degli opposti ci obbliga a prendere partito o quantomeno ad agire, o a dire, secondo coscienza. Per questo mi appresto a raccontare una storia, una storia dura, ma reale, quindi onesta, e per questo degna di essere raccontata. E poi non è forse nel buio dello sconforto che l’uomo prende coscienza? non è forse dall’oscurità del dolore, realmente sentito, che nasce l’indignazione e quindi l’azione? Nella piazzetta di un piccolo caseggiato andino della Colombia dal clima torrido, Puerto Nuevo Ité, c’è un muretto, e su questo muretto sono rappresentati 20 cuori in pietra, e ogni cuore racconta, con una trascrizione, la breve ed essenziale storia del corpo a cui era appartenuto. Contadini, operai di miniera o lavoratori di legna. Sotto il nome appare una data, la data del loro decesso. Il muretto, protetto da delle tegole di mattone, si estende per circa quattro metri e ha una forma ondeggiante. Anche i cuori ondeggiano, come corpi trasformati in anime, come crisalidi che, compiuto il proprio ciclo, si son trasformate in eterne farfalle. Due frasi accompagnano questi cuori. La prima recita, “Il vostro sangue è diventato seme della lotta”; la seconda, “In vostra memoria neanche un minuto di silenzio, ma un’intera vita di resistenza”. Sull’altro lato del muretto, un disegno infantile rappresenta l’immagine di un campo di battaglia. Un fiume ricco di pesci, dei pescatori, una selva di un verde intenso e una comunità contadina; uomini armati raggiungono la zona, la circondano, elicotteri dell’esercito arrivano con i rinforzi, capanne bruciate, persone in fuga, piccoli corpi stesi coperti di sangue sull’erba, sulle rive del fiume. Il monumento è in onore alle vittime dello Stato colombiano, cioè vittime che han subito la violenza del proprio Stato, e qui incontriamo nuovi opposti: fucili o bastoni, ferocia o innocenza, disastro umano od ordine naturale, sconforto o speranza, guerra o pace, morte o vita. Il primo cuore che ondeggia sul lato principale di questo muretto, porta il nome di Carlos Mario, detto Memo dai suoi amici. Carlos Mario era un ragazzo allegro ed estroverso, uno di quei ragazzi che apprezzano quanto di buono la vita sa dargli. Amava le sue montagne, quella terra aspra che incute rispetto solo per l’enormità di spazi nella quale sa avvolgerti. Quella terra così maestosa e ricca da essere ambita e combattuta con le armi. Ma lui non pensava a questo, lui amava giocarci a pallone su quella terra, la conosceva come si conosce il proprio luogo d’infanzia, ancora con quella spensieratezza che non lascia spazio alle preoccupazioni dell’ambiente sociale che ci circonda, alle questioni di politica, alle teorie di cambiamento, alle drammaticità della storia, per quanto non le ignorasse, per quanto fosse possibile rimanere estraneo all’evidenza. Ma il suo impegno, già da qualche anno, era quello di migliorare l’umile condizione economica della propria famiglia, contribuire con gli alimenti. La maggior parte delle persone che popolano queste montagne appartenenti all’area regionale del Nordeste Antioqueño, sono famiglie contadine che il conflitto interno ha obbligato ad abbandonare i luoghi natii e a ricercare una nuova terra da poter coltivare. Molti arrivavano con appena un’ascia e una pala e, dal nulla, si facevano spazio nella selva, tiravano su la propria casa e iniziavano a coltivare gli alimenti necessari per la propria sussistenza: mais, riso, yuca e platano. Alcuni avevano dovuto affrontare lunghi viaggi, passare per diverse tappe, fermarsi, fare differenti lavori, stabilizzarsi, per poi nuovamente doversi rimettere in viaggio. Altri erano dovuti sfuggire alle minacce di morte o ai tentati omicidi, in differenti luoghi del paese, per il semplice fatto di essere stati parte di gruppi sindacalisti, per essere emersi come leader comunitari, insomma per aver difeso i diritti umani della propria comunità. Ma, in questo contesto, per Memo l’unica cosa che realmente importava, era farsi carico della sua famiglia, e trovarsi un’occupazione che potesse soddisfare la propria necessità. Un giovane ragazzo, appena maggiorenne, che vive su questi monti, ha davanti a sé più o meno tre opportunità di lavoro. Lavorare in una miniera d’oro, seppur possa essere considerata un’opportunità relativamente generosa di guadagni, è un lavoro faticoso, stremante, vorrebbe dire, per Memo, trasferirsi in uno dei villaggi circostanti dove sono presenti miniere sotterranee, e passare le giornate dentro a un buco oscuro, profondo circa 150 metri, caricarsi sulle spalle 100 Kg di minerali, e fare su e giù tutto il giorno, tutta la settimana, tutti i mesi. L’agricoltura, da quando l’industria miniera a grande scala ha invaso queste terre, si è mantenuta solamente come un’attività di sussistenza che non dà nessuna rendita, anche perché non bisogna ignorare che questi villaggi sono raggiungibili solo a piedi o a dorso di mula, il paese più vicino è a 3 giorni di cammino, le strade nella stagione umida sono impantanate, e poi c’è il problema del conflitto armato, dei posti di blocco dell’esercito o dei paramilitari, che da qualche anno impediscono a queste popolazioni di muoversi liberamente, di commercializzare i propri prodotti, o anche solo portare nelle proprie case alimenti e medicinali. Muoversi è difficile perché, a causa della forte presenza guerrigliera, l’esercito e i paramilitari non fanno distinzione tra un semplice contadino e un combattente rivoluzionario, ciò che conta è portare risultati a casa – nella propria caserma – per un soldato abbattere un guerrigliero vuol dire essere ricompensato con un premio economico o un congedo di qualche giorno, questa è la regola. Perciò Memo aveva deciso da un po’ di tempo di lavorare nel settore della legna, un mestiere comune da queste parti, con un nome ben preciso, aserrador y arriero de madera. Tal lavoro consiste nell’andare nel bosco, tagliare accuratamente la legna in lunghe travi, legare in modo ben stretto due travi su entrambi i fianchi di una mula, ripetere l’operazione con le altre otto, nove, dieci mule e condurre il gruppo di bestie con la legna su quelle strette stradine di montagna, fino ad arrivare al deposito e sistemare tutto al suo posto. Così passarono i giorni e i mesi, la soddisfazione di poter aiutare la propria famiglia lo alleggeriva dal peso di doversi svegliare la mattina alle 5:30, di lavorare duro tutto il giorno e di tornare a casa prima del calar della notte. La gente aveva paura di andare in giro sola per le strade, anche perché il conflitto non dava segni di resa, sembrava che l’esercito considerasse tutti guerriglieri, senza fare distinzioni, e molte persone innocenti erano già state assassinate. Vedere una divisa militare incuteva timore, si camminava in gruppi di tre, quattro persone, e quando iniziava a scurire era meglio tornare a casa, nel calore degli affetti familiari ci si sentiva protetti, come solo la presenza di una madre, di una sorella o un fratello può trasmetterti coraggio. Da circa un anno, Carlos Mario stava vivendo nella fattoria di Marlon, un leader di un’organizzazione contadina che, ancora oggi, lotta per i diritti umani della propria comunità. Lì, aveva avuto modo di conoscere questa famiglia numerosa e di affezionarcisi, anche loro si erano affezionati a lui. Ci era andato per lavorare, per aumentare il proprio stipendio, e sognava un giorno, con i suoi risparmi, farsi un viaggio al di là di quelle montagne, farsi un regalo come ricompensa dei tanti sforzi fatti. O forse il suo viaggio era soltanto un desiderio di sognare, di sognare un momento di libertà, qualcosa che lo rendesse libero dalla schiavitù del duro lavoro, ma intendiamoci, non era il lavoro ciò che lo rendeva schiavo, questa era la sua soddisfazione, ciò che lo rendeva schiavo era l’ingiustizia della vita, l’ingiustizia di una violenza a lui esterna che era la causa di quella condizione sociale. Nella fattoria tutti lo apprezzavano, si sentiva come a casa sua, era diventato parte della famiglia, in particolar modo era molto legato a Raul, uno dei figli di Marlon, con il quale si conosceva già da qualche anno. Era nato un profondo affetto tra i due, uniti anche dal fatto di essere coetanei, era nato un affetto fraterno. Da quasi un anno, entrambi, avevano deciso di far parte di un gruppo di giovani che si riunivano con lo scopo di discutere e analizzare la dura situazione nella quale si trovava la propria comunità. Già esistevano organizzazioni contadine sul territorio che, con metodi non violenti, erano nate per affrontare una situazione diventata ormai insostenibile, e per proteggere davanti alla legge l’ambiente comunitario. Ma Raul, e men che se ne dica Memo, ancora non avevano una preparazione o una coscienza politica per diventare leader di un’organizzazione. Semplicemente ci si riuniva per capire, per iniziare a sviluppare una coscienza e per affrontare tematiche così importanti e necessarie, visto il contesto, per parlare di diritti umani. Adesso tutti sappiamo che nella vita esistono delle coincidenze, se poi queste coincidenze siano il frutto di un volere divino che si burla di noi uomini, o delle semplici casualità prive di alcuna connessione l’una con l’altra, o se l’istinto o sensibilità umana, che dir si voglia, possiede capacità a noi sconosciute che ci permettono di prendere coscienza, seppur non tali da produrre un’allerta ancor prima che fatti eclatanti avvengano, beh! questo è un giudizio che non compete alla stesura di questo racconto che, con tutta la sua umiltà, cerca di descrivere una realtà realmente accaduta, e poi neanche così lontana, visto che, arrivati a questo punto, ci troviamo a raccontare un fatto avvenuto la domenica 25 marzo del 2007, e fu solo il sabato 24 marzo dello stesso anno, cioè il giorno prima, che Carlos Mario, durante una riunione, si trovò a rivolgere a Raul domande del tipo: “Puoi spiegarmi di che tratta il Diritto Interazionale Umanitario?”, “Come può difendersi uno se, in un determinato momento, l’esercito lo cattura senza alcun mandato, e lo accusa di essere un guerrigliero?”. Alle quali domande, Raul, che pur non era un esperto di diritto, ma qualcosa già ne sapeva, gli rispose in modo deciso: “Secondo il DIU la popolazione civile non può e non deve essere coinvolta nel conflitto”. Quella domenica era un giorno comune, sì un po’ opaco, ma non che minacciasse pioggia. Memo era allegro come sempre quella mattina e, rivolgendosi a Marlon, gli chiese il permesso per andare a portare della legna a un amico. “Sì, ma non ti dimenticare che domani si lavora”, gli rispose Marlon. Prima di incamminarsi si fermò un momento a scherzare con Raul e un altro amico di nome Cesar. Dopo qualche battuta, prese un pesce dalla cucina e chiamò il cane della fattoria, “Kaiser!”, il cane si avvicinò e iniziò a saltare dietro al pesce. “Mi porto il cane” gridò rivolgendosi a Raul, “Portatelo quel lavativo, vediamo se impara a fare qualcosa”. Raul si fermò a guardare, per qualche secondo, la sagoma di Memo con dietro il piccolo cane saltellante che lentamente scompariva dietro la prima collina. Cesar, Carlos Mario e il cane Kaiser, iniziarono ad inoltrarsi per queste maestose equatoriali montagne andine. Il villaggio in cui ci troviamo porta il nome di Ojos claros, occhi chiari, come gli occhi del fiume Tamar che scorre per queste pendici andine ricche di boscaglia, di una fitta selva che riproduce canti di uccelli tropicali, lontani lamenti di scimmie sconosciute, fruscio di serpenti dagli intensi colori velenosi. Il fiume Tamar scorre e il suo colore non è più cristallino, scorre il fiume di un giallo oro, di un grigio mercurio, scorre e accompagna il percorso di questi due giovani che non temono l’immensità di questa selva, non temono quei rumori nascosti, quei fruscii di serpente che, per quanto velenosi, si adattano al contesto di una natura selvaggia, di un ordine precostituito, non stabilito da uomini capricciosi, egoisti, ambiziosi, avidi di oro e denaro, codardi di fucili e proiettili, non velenosi, ma mortali. Ed è qui, dopo solo 30 minuti di cammino, che i nostri giovani, con il tronco sulle braccia e mentre cercavano di attraversare un fiumiciattolo, si accorsero della presenza di alcuni militari, fermi a poca distanza all’estremo opposto di un piccolo ponte. Erano le 15 quando Raul, sdraiato sull’amaca, approfittava del riposo domenicale e della siesta del primo pomeriggio. Ma, d’improvviso, un rumore in direzione del fiume lo distolse, gli sembrò di sentire una canoa che scendeva per il fiume e si fermava, l’eco di due persone che parlavano e qualcuno che si toglieva gli stivali e faceva scorrere l’acqua infiltratasi nella suola. Si alzò per andare a vedere, ma vicino al fiume non c’era nessuno. Tornò nella sua amaca convinto di essersi sbagliato, ma sentì in lontananza il cancello della propria proprietà aprirsi e chiudersi. Pensò, “sarà l’esercito che viene a chiedere qualcosa da mangiare”, andò in cucina e preparò un pezzo di carne da dare ai soldati nel caso in cui avessero espresso questa esigenza. Ma, dopo 20 minuti nessuno arrivava, quindi si diresse verso il cancello pensando, “Saranno le capre”, ma nessuno era lì, neanche le capre. Forse era stato il vento e il fruscio degli alberi. Dopo circa 3 ore il sole stava quasi scomparendo. Raul, intento a limare il proprio machete, pensava al lavoro che avrebbe dovuto sbrigare il giorno seguente: mungere la vacca che aveva appena partorito il nuovo vitello, aiutare la madre a sistemare l’orto che le ultime piogge avevano dissestato, e poi, con il padre, dirigersi sulla montagne per decidere dove seminare i nuovi semi di mais. Mentre era immerso nei suoi pensieri, vide arrivare nella sua direzione, a passo veloce o forse correndo, Jeison, un cugino di Memo, accompagnato dalla moglie Candida. “Non sai niente?”, si rivolse Jeison a Raul con un tono affannato, dovuto al modo di camminare veloce pensò Raul, “Che cosa dovrei sapere?”, rispose poi con tono tranquillo. “Ma come non ti hanno detto niente? L’esercito ha preso Memo mentre stava con Cesar, però Cesar è riuscito a scappare ed è corso immediatamente a casa nostra per raccontarci tutto”. Possiamo immaginare, adesso, la forte preoccupazione con la quale Raul prese la dolente notizia e come il suo cervello, un attimo prima in uno stato di piacevole riposo, abbia, improvvisamente, iniziato a creare immagini contrastanti sulla nuova situazione che la vita gli sbatteva violentemente in faccia, per non parlare del cuore che iniziò a moltiplicare e subito a triplicare i battiti per minuto, attivando improvvisamente una serie di sensazioni anch’esse contrastanti, disperazione o fiducia, rabbia o autocontrollo, per poi successivamente risvegliare alla mente il ricordo di quei rumori di appena tre ore fa, già precedentemente seppelliti dalla memoria e riesumati immediatamente dalle ultime parole di Jeison, rumori che a questo punto riassumevano un ricordo reale, forse solo un prodotto delle proprie capacità sensitive o, al contrario, forse reali, realmente reali. Ma tutto questo insieme di sensazioni e pensieri ebbe la capacità di concentrarsi in appena due o tre secondi di tempo, mentre nel quarto secondo successivo Raul, incapace di mantenere il machete che gli era inavvertitamente caduto dalle mani, disse, “Andiamo subito dall’esercito!”. Ma la notte già era buia, e la selva nasconde pericoli, e con ciò non ci riferiamo ai pericoli di madre natura, a quegli esseri selvaggi che vivono o strisciano da sempre su queste montagne, ma, bensì, ai pericoli umani, tremendamente umani. Fortunatamente, o sfortunatamente, ma in questo caso certamente veniva in aiuto, la comunità aveva dovuto, già da tempo, trovare dei meccanismi di difesa per difendersi esattamente da eventi simili a questo che stava accadendo. Quindi si iniziarono a riunire un po’ di persone, insieme raggiunsero il punto dove si poteva fare una telefonata in città ai membri dell’organizzazione contadina ACVC, per poi prendere una decisione comune su come agire. E’ importante chiarire, per quanto possa essere intendibile, che la comunità, vivendo nel mezzo delle montagne andine, è isolata dal resto del mondo e il telefono prende solo in determinati luoghi presenti nel sentiero principale che unisce le varie fattorie o villaggi. Da qui ne nasce che, per lanciare un’allerta in città, il punto più vicino distava a circa due ore di cammino a dorso di mula o a cavallo. Nel percorso si convocarono le altre famiglie, si parlava della strategia da attuare, per quanto una strategia fosse possibile da stabilire, e, nonostante qualcuno avrebbe voluto agire immediatamente, si aspettò tutti insieme il tramonto della luna, l’albore del sole. Quella notte nessuno dormì, nessuno voleva credere che potesse succedere l’impensabile, soprattutto la madre di questo giovane ragazzo di appena 21 anni, che, quando ricevette la notizia, le uniche parole che fu capace di dire furono: “No! a mio figlio non può succedergli nulla, non ha nessun problema con l’esercito e tantomeno con la giustizia”. Il cane Kaiser quella notte non smise di ululare neanche un secondo, per quanto avesse ricevuto vari rimproveri o ordini di fare silenzio – e anche qualche calcio – continuava imperterrito a ululare, ululare fino alle prime luci del giorno. Il gruppo nutrito di persone, chi a piedi, chi in mula o a cavallo, si mise in cammino con alla guida Cesar, il ragazzo che era riuscito a sfuggire alla cattura. Arrivarono al piccolo ponte dove i due o tre militari, non è ben chiaro quanti fossero, avevano obbligato i nostri ragazzi a seguirli sul monte, spingendoli verso una piccola casa di legno nascosta nella selva. Era lì, vicino alla casa, che Cesar, prospettando il tragico epilogo, era riuscito a scappare e a mettersi in salvo. Con un misto di rabbia, un desiderio di mantenere acceso il fuoco della speranza e con il coraggio che ognuno trasmetteva agli altri componenti del gruppo, giunsero nel luogo dove da lontano avevano scorto un accampamento militare. “Esercito nazionale! dove vi state dirigendo?”, domandò con tono brusco un militare della pattuglia, “Ci dirigiamo esattamente nel punto dove siamo arrivati, per dirvi di restituirci quello che avete con voi!”, rispose un uomo del gruppo mantenendo lo stesso tono del militare, “Non capisco di cosa state parlando, aspettate un momento qui che vado a chiamare il tenente”. La tensione e il nervosismo crescevano, anche le mule e i cavalli iniziarono ad agitarsi quando videro arrivare il tenente Castellanos. “Avete bisogno di qualcosa?” domandò il tenente con stizza e con un’espressione di indifferenza, “Siamo venuti a riprenderci il ragazzo della comunità che avete catturato ieri pomeriggio”, rispose con tono deciso una donna del gruppo, “Mi dispiace signora, vi state sbagliando, non abbiamo nessuno con noi”, “Voi ce l’avete, perché l’altro ragazzo vi è scappato e ci ha raccontato tutto” sbottò un’altra donna, “No, no. Vi state confondendo. Quello che abbiamo con noi è un guerrigliero ucciso in combattimento”. La piccola speranza che riusciva a mantenere una parvenza di controllo nel gruppo, d’improvviso si vide svanire e fare spazio a un insieme uniforme di ira, rabbia e disperazione. Raul, con gli occhi improvvisamente nascosti dietro a delle lastre di lacrime, si lanciò contro il tenente e, prendendolo dalla giacchetta, gli gridò: “Bastardi! Codardi! Avete ammazzato un uomo disarmato. L’arma gliel’avete messa in mano dopo averlo ucciso!”. Mentre Marlon intervenne per calmare il figlio che aveva iniziato a scagliarsi contro tutto il battaglione, la madre di Memo, con le poche forze che gli restavano, si avvicinò a un soldato, gli poggiò le mani sulla giacchetta militare e sussurrò energicamente le uniche parole che una madre avrebbe potuto concepire in quel momento: “Perché uccidete, perché, era vostro fratello, era colombiano come voi”. Il soldato cercò di ignorarla, di allontanarla con indifferenza, ma l’uomo – ché anch’esso è un uomo – girò lo sguardo verso gli altri e non riuscì a fermare le lacrime che gli sgorgavano incontrollate. Qualcuno, con buone ragioni, potrebbe pensare che le lacrime di un soldato, responsabile della morte di un giovane innocente, non siano altro che lacrime di coccodrillo; mentre qualcun altro potrebbe vedere in quelle lacrime un improvviso pentimento e, magari, con un positivistico atto di commozione, sperare nella conversione di questo soldato – colpevole di una brutale indifferenza oltre che responsabile di un omicidio – in un uomo ormai pur sempre colpevole ma intenzionato a redimere le proprie colpe. Ma i fatti dicono che quando ormai la verità era venuta a galla, quando ormai tutto era chiaro, l’intero battaglione, compreso il soldato dalle lacrime fisiologiche o di pentimento, non fece nulla per migliorare una situazione, di certo non migliorabile arrivati a questo punto, ma almeno non meritevole di perseveranza o, come si suol dire, di subire la pressione di quel dito in una piaga già troppo dolente di per sé. Il Batallón de Ingenieros N. 14 “Batalla de Calibío”, quel giorno, oltre ad essersi macchiato di un omicidio, non consegnò il corpo del giovane Carlos Mario ai propri cari, ma un elicottero se lo portò via, per essere restituito alla famiglia ormai in stato di decomposizione. Siamo seduti su due pietre, Raul e io, ai piedi di un albero, a due passi dal monumento di Puerto Nuevo Itè. Dopo quel giorno anche lui è diventato un leader di un’organizzazione sociale. Lo guardo negli occhi, che sono lucidi, come il ricordo che ha appena finito di raccontarmi, penso alla forza di chi è costretto da sempre a non chiudere gli occhi, davanti all’ingiustizia, davanti alla paura, davanti alla morte. Ma sono solo miei pensieri, lui è già nel presente, i suoi occhi lo sono, non più lucidi, si spalancano, sorridono e guardano avanti. * * * Il caso di Carlos Mario è giuridicamente denominato, “esecuzione extragiudiziale”. Il governo colombiano, forse per ridurne l’impatto, con un gioco di parole lo denomina un caso di “falsos positivos”, falsi positivi, cioè un falso guerrigliero, un errore dell’esercito o forse una spiacevole svista. Fatto sta che, secondo la “Coordinación Colombia, Europa, Estados Unidos” (CCEEU) e l’organizzazione statunitense “Fellowship on Reconciliation” (FOR), le vittime di esecuzione extragiudiziale documentate nel paese sarebbero 6.863, di cui 5.326 avvenute durante i due mandati del governo Álvaro Uribe Vélez (2002-2010). Ad oggi, la stragrandissima maggioranza di questi casi rimangono impuniti. Il conflitto colombiano dura da più di 50 anni, una delle sue cause principali è la ricchezza della terra e il susseguente sfruttamento attraverso l’estrazione delle risorse minerarie. L’area regionale del Nordeste Antioqueño è uno dei territori colombiani più ricchi d’oro. Questo ha generato, nel tempo, una lotta tra gruppi armati per il controllo della terra e l’entrata di multinazionali straniere come la nordamericana “Frontino Gold Mines”, poi sostituita con l’attuale canadese “Gran Colombia Gold”. A subire le spese di tutto ciò sono, in primis, le popolazioni contadine, indigene e afrodiscendenti, che vengono utilizzate solo come manodopera a basso costo o gli viene espropriata la terra attraverso metodi di intimidazione o la violenza; in secondo luogo, l’ambiente naturale, che è devastato dai processi di estrazione e dal mercurio e il cianuro che, utilizzati per separare l’oro, inquinano i fiumi e quindi l’acqua. Per questi e altri motivi i contadini del Nordeste Antioqueño decidono, quindi, di organizzarsi e nasce, a fine anni ‘90, l’associazione ACVC (Asociación Campesina del Valle del Río Cimitarra) e, successivamente, l’organizzazione Cahucopana (Corporación Acción Humanitaria por la Convivencia y la Paz del Nordeste Antioqueño). Le due organizzazioni, oltre a difendere i diritti umani della comunità, lavorano per trovare una soluzione politica al conflitto armato e si occupano di rafforzare gli aspetti sociali, economici e culturali attraverso la equa redistribuzione delle terre; l’appoggio all’economia contadina; lo sviluppo regionale sostenibile; la sovranità alimentare; e la creazione di nuove forme amministrative che favoriscano la partecipazione diretta del cittadino. Attraverso varie lotte politiche, proposte costruttive, scioperi, manifestazioni, proteste pagate con la perdita di molti leader, finalmente il territorio sarà riconosciuto, nel 2002, come Zona de Reserva Campesina (ZRC). La ZRC è uno strumento politico atto a garantire, in un determinato territorio protetto, la ridistribuzione equa della proprietà della terra, il rispetto dell’ambiente e lo sviluppo dell’economia contadina. Oltre ad essere un ottimo strumento per la protezione della comunità e la costruzione della pace in Colombia. Tutto ciò è solo una piccola parte di ciò che i contadini colombiani stanno subendo e costruendo nel loro paese. Difendersi e contrastare un sistema – non solo colombiano ma globale – il cui unico interesse è generare ricchezza attraverso la privatizzazione della terra, lo sfruttamento delle risorse, l’annullamento di qualsiasi altro tipo di organizzazione societaria o politica e, come abbiamo visto nel racconto, la violazione dei diritti umani – non è affatto facile. La lotta politica per il rispetto della terra e la costruzione della pace è un processo lungo e pieno di ostacoli. Ma ciò che dimostrano le popolazioni andine della Colombia, non è la facilità con la quale si raggiungono i risultati, ma è il coraggio e la passione che li mantiene in piedi di fronte all’oppressione e all’indifferenza. Ad eccezione della vittima di esecuzione extragiudiziale – Carlos Mario – e il tenente Castellanos, i nomi delle persone presenti nel racconto sono stati cambiati per proteggerne l’incolumità e la privacy.

domenica 12 aprile 2009

Diario di un'estate a San José de Chiquitos
di Francesca Casafina (agosto 2008)

Mi affaccio dal finestrino e una vampata calda mi accarezza la faccia. L'aria è satura di sabbia. Una signora corpulenta cammina con abilità lungo i corridoi del treno, portandosi dietro una grossa cesta piena di empanadas e pollo fritto. Presenta la sua succulenta mercanzia con voce stridula, lasciando ogni tanto qualche impronta d'olio sul grembiule verde che le sottolinea i fianchi generosi. Mi fermo a osservare una bellissima ragazza con delle trecce lunghissime e dei splendidi occhi scuri. Sulle spalle tiene legato con un grosso nodo un aguayo, il tradizionale tessuto andino. Ha una bella dentatura bianca, mani piccole e i polsi pieni di braccialetti di rame. Mi dice che ormai manca poco e in effetti dopo meno di venti minuti cominciamo a rallentare. Il treno sembra un grosso gigante stanco, che arranca a fatica tra frenate brusche e accelerate rumorose. Ci lascia in piena notte in una rumorosissima stacion ferroviaria, scaricando il suo ventre sovraffollato di passeggeri. Appena scendiamo veniamo sopraffatti da un odore di fritto che si attacca ai vestiti, intorno e' pieno di chioschetti improvvisati dove è possibile mangiare pollo fritto, empanadas al formaggio, riso, manioca, caffé, refrescos e poi l'immancabile majadito – un piatto tradizionale composto da riso, pollo e manioca fritta -. Fa caldissimo. L'umidità agisce sul corpo come una droga naturale, rallentando la capacità di movimento. I passeggeri ormai a terra sembrano tante formiche sovraccariche ancora intorpidite dall'aria viziata del treno. Sopra di noi un cielo che trabocca di stelle luminosissime. Poco lontano la grossa statua di una ragazza con indosso il tradizionale abito chiquitano che le scende maliziosamente sulle spalle. Sembra quasi volerci dare il benvenuto. Benvenuti a San José de Chiquitos, Bolivia.
Negro, Mosi e don Elio sono venuti a prenderci. Saliamo sulla vecchia toyota col volante trapiantato a destra, dopo essserci abbracciati a lungo. Arrivare a San José é un pò come tornare a casa. A volte penso che sia il posto più ospitale del mondo ma è solo un pensiero fra i tanti che adesso mi scorrono in testa. Mi accendo una sigaretta e comincio a tracciare col dito la strada, sulla sinistra l'aldea de ninos, poi la strada del mercato dove ci sono gli alberghi "non per turisti", la macelleria all'angolo e poi la via di casa. Non ci sono indicazioni, non ci avevo mai fatto caso. Neanche se ne sente la mancanza, a dire la verità. Quando riconosco il campanile della chiesa capisco che siamo arrivati. In casa sono tutti svegli ad aspettarci. Anche Beethoven e Chulin. Sul tavolo c'è del pane e un pò di mate caldo ma siamo troppo stanchi. Ancora qualche abbraccio, il tempo di sistemare il mosquitero e poi a dormire. Fuori il silenzio. Fisso la tenda bianca gonfiata dal vento e sbircio fuori fino a che non mi vince il sonno. Sono a casa.

San José de Chiquitos si trova nel dipartimento di Santa Cruz, nella parte orientale della Bolivia. E' una delle sette missioni gesuitiche della Chiquitania, insieme a San Miguel, San Ignacio de Velasco, San Javier, Concepcion, Santa Ana e San Rafael. Durante l'epoca della dominazione spagnola l'influenza dei missionari gesuiti è stata molto forte in queste zone e le bellissime chiese in stile barocco-chiquitano sono una testimonianza dell'incontro fra la cultura chiquitana e la religione cattolica.
La facciata della chiesa di San José ha una forma regolare. All'interno grosse panche di legno massiccio, pavimento in terracotta, la lunga navata che conduce a un abside sontuoso. E' un luogo che rapisce, anche chi non è credente. C'è come una strana energia che pervade e predispone al raccoglimento. La chiesa non è mai chiusa e non è mai vuota. Il bisogno di pregare qui non ha orario e la fede pervade ogni aspetto della vita collettiva, nutrendosi di credenze popolari oltre che del tipico umorismo chiquitano. Camminando per le strade polverosissime di San José l'impressione che si ricava è quella di quiete, forse anche per via del caldo tropicale. I ritmi sono dilatati e la lentezza non sembra rappresentare un problema. La piazza davanti alla chiesa ruota intorno a un chioschetto in ferro battuto dove si tengono i concerti durante le feste. Agli angoli delle strade qualche banchetto di caramelle e sigarette sfuse. Qui siamo nella Bolivia tropicale, terra di immense pianure fertili, prossima alla frontiera col Brasile. I grossi latifondi di agricoltura industriale si trovano qui, dove l'abbondanza di terra buona e la debolezza dei sindacati agrari favoriscono lo strapotere delle oligarchie terriere. Adesso, con Evo Morales al governo, sembra che le cose stiano cambiando. Rifletto sull'immenso potenziale di queste terre, sulla generosità di una natura particolarmente prodiga che le logiche del profitto riescono a pervertire. Ci fermiamo a prendere un refresco alla pesca e a chiaccherare un po' con Jaime e Rosi. Non sono di queste parti, vengono dalle zone dell'altopiano, nella Bolivia occidentale. E' facile intuirlo non solo dai loro tratti tipicamente andini ma anche dall'abbigliamento di Rosi, tipico dell'altopiano. Qui chiamano colla le persone dell'altopiano, con un misto di diffidenza e razzismo. Le vicende politiche dell'ultimo trentennio hanno ridotto la Bolivia a un paese diviso, in cui i ricchi dipartimenti orientali si oppongono al centralismo delle regioni andine. Forti delle loro economie dominanti – qui si trovano le riserve di petrolio e gas naturale – le zone della cosiddetta “mezzaluna fertile”, capeggiate dal dipartimento di Santa Cruz, dove ci troviamo, si oppongono tenacemente alla politica “indigenista” di Evo Morales, rivendicando un'autonomia politica che consenta una gestione decentralizzata della ricchezza. In altre parole evitare la redistribuzione dei proventi delle esportazioni su scala nazionale. E non è cosa da poco, se si considera che il dipartimento di Santa Cruz contribuisce da solo a circa il 30% del PIL nazionale. La Bolivia è il paese delle contraddizioni, dei conflitti permanenti, con una polarizzazione sociale fortissima, una ricchezza culturale enorme e una rara abbondanza di risorse naturali. Un paese con alle spalle tanta storia di lotte sindacali e contadine, spesso umiliato da politiche economiche ingiuste ma mai vinto. La politica, quella vera, qui si fa nelle piazze, nelle strade, marciando in migliaia per chilometri fino ai palazzi del potere. Morales è riuscito a vincere le elezioni grazie al sostegno dei movimenti sociali e alla lotta popolare contro le privatizzazioni dei beni comuni. Come dire, i politici a lezione dal popolo e non viceversa.
Ritorno dalle mie riflessioni, saluto Jaime e Rosi e mi avvio con gli altri verso casa. Sono quasi le 12, dona Ausencia avrà già preparato il pranzo.

Sveglia alle 5 e mezza. Il solito canto del gallo, stamattina particolarmente audace. Oggi cominciamo il lavoro alla fattoria sociale o scuola d'azione, come ci piace chiamarla. Sono circa quindici ettari di terreno, dove adesso crescono pomodori, fagioli, alberi di limoni e canna da zucchero. Due anni fa abbiamo lavorato per ripulire il campo, costruire il pozzo e la pompa per l'acqua. E' stato un lavoro enorme, soprattutto per chi il pozzo l'ha costruito veramente. Noi volontari ci abbiamo messo tanta volontà, un bel pò di inesperienza e poca resistenza alla fatica fisica. Ma abbiamo imparato tanto, soprattutto cosa significa essere parte di un progetto e lavorare insieme per realizzarlo. Fidel è già al lavoro. Ogni tanto ride di noi. In effetti è uno spettacolo divertente vedere Marco recintare l'orto col filo spinato, Martina e Lucilla maneggiare l'ascia o Germano rassodare il terreno. Siamo una squadra di idealisti impenitenti e imbranati. E il sole non perdona. Per fortuna c'è la foglia di coca a tirarci un pò su. Fidel è di Vallegrande, una delle province del dipartimento di Santa Cruz. A Vallegrande furono catturati "Che" Guevara e i suoi, mentre cercavano di preparare la rivolta popolare nell'inospitale selva boliviana. E' un tipo scherzoso, Fidel, a tratti irriverente ma assolutamente genuino. Anche se esile di corporatura ha una resistenza fisica impressionante. Con i ragazzi parla di donne e cerveza, a noi riserva argomenti meno "da uomini". Quella contro il machismo è una battaglia contro i mulini a vento da queste parti, soprattutto nelle zone rurali. Anche se hai una vanga in mano, una salopette da lavoro, un bolo di coca in bocca e un mozzicone di sigaretta in mano rimani sempre una mujer, magari un pò sui generis ma sempre mujer. Rido di questo, anche se mi fa un pò rabbia, mentre cerco disperatamente di far camminare dritta la carriola piena di sterpaglie, con Fidel che mi guarda divertito. Ho le tasche piene di limoni e le mani sporche di terre. Lo spirito alle stelle, anzi alle nuvole.
Quando sentiamo il rumore del motore, capiamo che è ora di tornare a casa. Carmen, Anamaria e Fabiola sono venute a prenderci. Carmen è la responsabile dei progetti qui a San José. E' una persona formidabile, testarda all'inverosimile e fiera. Ha studiato economia agraria all'università di Santa Cruz. Saliamo sulla macchina, tre sul sedile posteriore e due nel portabagagli. Sbucciamo qualche arancia, Marco arrotola una sigaretta e Germano scatta qualche foto. Propongo di cantare una canzone, De André, Guccini, Modena City Ramblers, qualche stornello romano. L'idea piace a tutti.

Una delle cose che più mi piace fare a San José è comprare il pane. Molte donne lo fanno in casa e poi lo vendono ancora caldo. La sera ceniamo con una tazza di caffé caldo o mate di coca, un pò di pane, la marmellata di dona Eraida e magari qualche focaccina al mais impastata dalle mani preziose di dona Ausencia. E' una vecchietta silenziosa e riservata, gelosa del suo regno incantato che è la cucina, dove sforna, taglia, impasta, mescola e frigge come una maga gelosa delle sue formule magiche. Non sa scrivere né leggere. Non l'ho mai abbracciata perchè mi sembrerebbe di violare il suo codice discreto ma le voglio un gran bene. Il giorno in cui abbiamo condiviso la ricetta della torta alle mele ho capito di aver conquistato la sua fiducia e ne vado orgogliosa. E' il nostro segreto.
Oggi andiamo nelle comunità rurali, poco lontane da San José. Henry passa a prenderci col solito furgoncino rosso carico di buste di insalata, corde e casse di pomodori. Lavora per il Plan de desarrollo indigena. E' una persona dolce e disponibile, conosciuto e ben voluto da tutti. Nelle comunità ci accolgono con la consueta ospitalità, visitiamo la scuola, l'ambulatorio, i laboratori di artigianato e gli orti comunitari. Junior e Julio Conrado stanno portando avanti un laboratorio itinerante di pittura creativa. Quest' anno è arrivata anche l'illuminazione elettrica qui nelle comunità. Ci fermiamo a Ramada per dare una mano nella raccolta dei pomodori. Tra risate generali e qualche raccomandazione riesco anche a montare senza sella un malandato ronzino non troppo contento di avermi sul groppone. Dopo il bagno al fiume e il pranzo a casa di dona Maria ci riuniamo con le donne per discutere dei progetti, fra battute, risate complici e caffé in abbondanza. Il problema adesso è la pompa dell'acqua e l'amministrazione dei fondi da parte del Plan, che sta creando non pochi dissapori tra le comunità. Ma si continua a lavorare. Si fa buio ed è ora di tornare a San José.
Quando va via il sole si apre un fiore bianco che qui chiamano maliziosamente duena de la noche. Ha un profumo buonissimo, dice Martina, fra le inevitabili risate generali.

San José è un pueblo piccolo. Le strade sono sterrate e l'unico punto di ritrovo è la piazza principale davanti alla chiesa. C'è la scuola di musica, che tiene viva l'antica tradizione della costruzione di strumenti musicali. Il legname qui è abbondante, nel bosque seco chiquitano. E poi c'è Radio Nativa di don Konrado, la voce di San José e una delle persone più belle che io abbia mai conosciuto. Ha origini tedesche ed è uno dei cittadini più conosciuti qui a San Josè insieme a don Elio, memoria storica della Chiquitania. Turisti ce ne sono pochi, qualche volontario che collabora con le suore dell'orfanotrofio e ogni tanto qualche viaggiatore alla ricerca di itinerari non da guida turistica. L'ospitalità qui ha radici antiche e il piacere di stare insieme è la vera risorsa. Forse a Roma la chiamerebbero indolenza ma è perchè non sono mai stati a San José. Al di là della retorica sul "chi ha meno vive meglio" o sulla "riscoperta delle cose semplici" mi verrebbe da dire che qui a San José è ancora possibile svegliarsi la mattina di buon umore, sudare di fatica ma farlo tutti insieme, godersi la siesta dopo pranzo e "perdere tempo" fregandosene del tempo. Non ho mai riportato cartoline da San José ma solo la cara de abuelo che mi ha regalato Marlene, le borse dipinte a mano e un pò di terra rossa di Irpias. E poi volti e risate. Tante risate.

giovedì 19 marzo 2009


Un immenso tesoro nascosto sotto il deserto di sale della Bolivia
di Francesca Casafina

Un'immensa distesa bianca sotto un sole inclemente. Un enorme lago di sale che restituisce allo sguardo una luce accecante. Impossibile togliere gli occhiali da sole a meno che non si distolga lo sguardo dal blocco di sale per doluirlo nell'esplosione di azzurro sopra le nostre teste. La distesa salata di Uyuni è la più grande riserva mondiale di sale. A pochi chilometri c'è la città di Potosì, capitale dell'omonimo dipartimento. L'argento che riempiva i forzieri europei nel XVI secolo veniva estratto qui, dalle vene nascoste del Cerro Rico di Potosì. Intorno le ande, giganti rugosi dalle cime imbiancate. Faccio fatica a respirare. L'aria è pesante a oltre 3500 metri di altezza. Fatico a credere che sotto i miei piedi ci sia la riserva di litio più grande mai scoperta. I nostri computer e cellulari sono fatti di litio: scavando appena un metro sotto il sale, qui a Uyuni, in un paesaggio che sembra lunarec'è il 50% di tutto il litio presente sul nostro pianeta. Mica male per un paese che possiede anche petrolio, minerali e gas naturale. Chiedo a Herman che mi fa da guida che cosa ne pensa di questa storia del litio, mentre visitiamo una delle tante officine a cielo aperto dove si raccoglie e si lavora il sale. Mi dice che ormai non c'è problema perchè c'è Evo al governo. Già perchè dopo secoli di sfruttamento selvaggio dei loro tesori i Boliviani hanno quasi imparato a diffidare di una natura tanto generosa. Sanno che la ricchezza può essere una maledizione per un paese che non è in grado di sfruttarla. Ma il ministro boliviano delle miniere Alberto Echazu ha già dichiarato che sarà la Bolivia a decidere dello sfruttamento del litio e che non si limiterà a fornire la materia prima alle multinazionali del settore: "...lo sfruttamento secolare delle nostre risorse è finito" ha detto il ministro in un'intervista alla Bbc. Rimane però il problema della mancanza di infrastrutture, anche se il governo boliviano si dice pronto a investire oltre 5 milioni di dollari in un progetto pilota per l'estrazione e il trasporto del minerale. Sicuramente imprese straniere interverranno per facilitare l'avvio di un'industria stabile del litio ma, anche considerando il trend di crescita del minerale previsto sui mercati mondiali nei prossimi anni, la Bolivia è decisa a mantenere un ruolo attivo fino in fondo. Anche perchè, va ricordato, il litio potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella costruzione delle batterie per automobili elettriche, in previsione dell'esaurimento delle riserve petrolifere previsto per i decenni a venire. Un bel terreno di prova per Morales, non c'è dubbio. E una speranza di riscatto per una terra da sempre depredata e offesa. Herman mi dice di affrettarmi perchè comincia a fare troppo freddo. Qui è la natura a dettare i tempi e gli spostamenti.Se il vento dice che è ora di andare, bisogna andare.